La cosiddetta violenza psicologica sul luogo di lavoro può diventare reato nei piccoli ambienti di lavoro, laddove il contatto diretto tra datore e dipendente rende assimilabile l’azienda a un contesto familiare; in tal caso, dunque, scatterà il reato di maltrattamenti in famiglia.
Ma anche laddove non vi siano i presupposti per la tutela penale, le vessazioni possono rientrare nel concetto di mobbing, con conseguente diritto al risarcimento del danno.
Secondo la giurisprudenza, ovvero le pronunce dei giudici che diventano fonte del diritto «Il mobbing si verifica nei luoghi di lavoro e consiste in una forma di violenza psicologica deliberatamente posta in essere, da un superiore o da colleghi di lavoro, nei confronti di una vittima designata. Il mobbizzato, oggetto di continui attacchi e vessazioni, è ridotto in una condizione di estremo disagio psicologico e in alcuni casi ad un crollo del suo equilibrio psicofisico. Le occasionali divergenze di opinioni, i momenti di conflitto e gli eventuali problemi che possono verificarsi durante i normali rapporti di lavoro non integrano gli estremi della violenza psicologica deliberatamente posta in essere nei confronti del lavoratore».
In assenza di prove idonee a fornire la dimostrazione del pregiudizio affermato, la richiesta di risarcimento danni non può trovare accoglimento.
Il concetto di mobbing presuppone non solo un comportamento protratto nel tempo, ma anche che, alla base di esso, vi sia l’intento di emarginare il dipendente, mortificarlo, umiliarlo ed, eventualmente, provocarne le dimissioni.
Pertanto il semplice fatto di sgridare il dipendente in una o poche occasioni non configura mobbing.
Le singole condotte di vessazione e di violenza morale diventano mobbing solo quando causano nella vittima un progressivo accumulo di disagio, degenerato in uno stato di prostrazione psicologica .
Dispute sui luoghi di lavoro : non sempre è mobbing
La cosiddetta violenza psicologica sul luogo di lavoro può diventare reato nei piccoli ambienti di lavoro, laddove il contatto diretto tra datore e dipendente rende assimilabile l’azienda a un contesto familiare; in tal caso, dunque, scatterà il reato di maltrattamenti in famiglia.
Ma anche laddove non vi siano i presupposti per la tutela penale, le vessazioni possono rientrare nel concetto di mobbing, con conseguente diritto al risarcimento del danno.
Secondo la giurisprudenza, ovvero le pronunce dei giudici che diventano fonte del diritto «Il mobbing si verifica nei luoghi di lavoro e consiste in una forma di violenza psicologica deliberatamente posta in essere, da un superiore o da colleghi di lavoro, nei confronti di una vittima designata. Il mobbizzato, oggetto di continui attacchi e vessazioni, è ridotto in una condizione di estremo disagio psicologico e in alcuni casi ad un crollo del suo equilibrio psicofisico. Le occasionali divergenze di opinioni, i momenti di conflitto e gli eventuali problemi che possono verificarsi durante i normali rapporti di lavoro non integrano gli estremi della violenza psicologica deliberatamente posta in essere nei confronti del lavoratore».
In assenza di prove idonee a fornire la dimostrazione del pregiudizio affermato, la richiesta di risarcimento danni non può trovare accoglimento.
Il concetto di mobbing presuppone non solo un comportamento protratto nel tempo, ma anche che, alla base di esso, vi sia l’intento di emarginare il dipendente, mortificarlo, umiliarlo ed, eventualmente, provocarne le dimissioni.
Pertanto il semplice fatto di sgridare il dipendente in una o poche occasioni non configura mobbing. Le singole condotte di vessazione e di violenza morale diventano mobbing solo quando causano nella vittima un progressivo accumulo di disagio, degenerato in uno stato di prostrazione psicologica .
Avv. Prof. Debora Bozzetti
Studio Legale Casale & Partners
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